'Caio' Pellizzon: una vita da collaudatore

'Caio' Pellizzon: una vita da collaudatore
Lo storico collaudatore Aprilia, sviluppatore per un quarto di secolo di tutte le ciclistiche stradali della casa di Noale, si racconta in un'intervista esclusiva
7 dicembre 2012

Nell’affascinante mondo degli addetti ai lavori del motociclismo italiano un posto di riguardo lo merita sicuramente Claudio “Caio” Pellizzon. Tutte le Aprilia, dalle prime 125 fino alle più recenti (Caio è andato in pensione nel 2005, ma ha continuato a collaborare fino a un paio di anni fa) portano infatti la sua firma.

 

Attenzione: Pellizzon non è un designer, ma è stato per tutto questo periodo il responsabile dei collaudi, l’uomo che ha garantito la continuità della grande tradizione ciclistica della marca veneta. Oltre che dal punto di vista tecnico, Caio è una figura di spicco anche da quello caratteriale: concetti quali “esprimersi con diplomazia”, “ammorbidire i toni”, “valutare l’opportunità” sono sempre stati a lui abbastanza alieni. Se al rientro da un test effettuato in pista o sulle infinite strade venete di cui conosce ogni curva ed ogni avvallamento, qualcosa non lo soddisfaceva, lo stabilimento risuonava immediatamente delle sue variopinte imprecazioni, allertando subito progettisti, motoristi, tecnici, presidenti…

 

Volendo fare un paragone cinematografico, Pellizzon è la trasposizione motociclistica dell’ispettore Callaghan (tra l’altro c’è anche una certa somiglianza fisica con Clint Eastwood): instancabile, insofferente alle gerarchie ed alle procedure, senza peli sulla lingua e sempre teso verso la giustizia, nel suo caso offrire al cliente moto impeccabili. Questa quarantennale, incrollabile determinazione, unita ad una passione senza uguali, è stata a nostro avviso importantissima per mantenere, nell’avvicendarsi di progettisti, metodologie e riferimenti dell’azienda, un timone fermo su certe imprescindibili caratteristiche che le moto di Noale dovevano avere.

E come nei film che si rispettano, questo compito è ora assolto dal figlio Fabrizio, che di Caio è una specie di clone fisico e caratteriale, avendoci lavorato a fianco per dieci anni. Pur ancora pienamente coinvolto nel motociclismo ed in forma smagliante, Caio è oggi - aziendalmente parlando - un pensionato con cui si può fare tranquillamente qualche riflessione sul passato.

 

La prima RSV Mille, forse il capolavoro di 'Caio'
La prima RSV Mille, forse il capolavoro di 'Caio'

Caio, hai costruito il tuo personaggio sulla fiducia in te stesso. In realtà, non hai mai avuto dei dubbi su qualche scelta?

«Il momento in cui mi sono sentito piccolo piccolo è stato prima della presentazione della RSV. La proprietà aveva deciso infatti di farla testare in segreto ad un giornalista che allora andava per la maggiore, che dopo pochi giri ne scese quasi disgustato. Secondo lui la ciclistica era completamente sbagliata, e le sue affermazioni crearono un grosso trambusto in azienda. Non c’era comunque tempo per fare aggiustamenti, ed andammo alla presentazione senza modifiche. Mi chiedevo dove potevo avere sbagliato, ma per fortuna la moto poi piacque a tutti, soprattutto per la facilità di guida.»

 

Già che siamo in tema… che opinione hai dei giornalisti che provano le moto?
«Mi hanno sempre lasciato perplesso le prove, specie comparative, fatte in mezza giornata. Per quanto riguarda i giornalisti, ci sono quelli coscienziosi, che provano con metodo e hanno consapevolezza anche dei propri limiti. Ce ne sono invece parecchi che hanno perso il senso della realtà e si credono dei fenomeni; facevano un giro e mi chiedevano di modificare il set up della moto radicalmente. Io facevo finta di accontentarli, svitavo, riavvitavo ed alla fine lasciavo tutto com’era. “Ehi, adesso si che la moto va bene!” mi dicevano. Il ruolo dei giornalisti tester è molto importante nei confronti del lettore, andrebbero selezionate persone qualificate e utilizzato il tempo che ci vuole, ma non sempre purtroppo è così! Tra l’altro, ho sempre fatto fatica a rapportarmi con chi girava 15 secondi più lento di me e veniva a dirmi che secondo lui la moto era nervosa...»

 

Caio, partiamo dalla parte sbagliata: quale è l’Aprilia di cui sei meno soddisfatto?

«La Motò 6.5. Purtroppo trovai dall’altra parte un tipo più coriaceo di me, Philippe Stark, il famosissimo designer cui Beggio aveva affidato l’estetica, che non voleva che il suo progetto venisse toccato. Sarebbe stato necessario rivedere almeno marmitta e serbatoio ma non ci fu verso, tanto che ad un certo punto, esasperato, lasciai lo sviluppo ad altri. Intendiamoci, non è che andasse male, ma avrebbe potuto essere un mezzo molto migliore. Devo comunque ammettere che l’estetica era straordinaria, purtroppo anticipò troppo il periodo delle naked modaiole, e non fu apprezzata dal mercato.»

 

Le moto che invece ti hanno dato maggiore soddisfazione nella tua carriera fino al 2005?

«Sicuramente tutte le 125 due tempi, dalla ST alla RS passando per le varie Sintesi, Extrema, ecc. Il lavoro di rifinitura continua, spinti inizialmente anche dalla lotta con Cagiva, ci ha permesso di realizzare delle moto assolutamente straordinarie, divertimento puro da guidare e che su circuiti lenti potevano tenere il passo di un mille. Poi la RSV, anche questa sviluppata anno per anno e giunta secondo me vicino alla perfezione. Peccato solo che a livello di motore non ci si sia spinti più avanti: purtroppo infatti la maggior parte dei clienti guarda il numero di cavalli piuttosto che l’eccellenza telaistica. Ricordo con piacere anche la RS 250 dove, a parità di motore, facemmo una moto a mio giudizio molto migliore di Suzuki.»

 

Tra i tanti modelli, quali secondo te non hanno avuto il successo che meritavano?

«Falco e Futura erano due ottime moto; purtroppo la prima era una via di mezzo tra stradale e sportiva e non fu capita, mentre la seconda non piacque esteticamente. La Caponord, pur vendendo bene,  secondo me non ebbe tutto il successo che meritava: era una moto straordinaria, nettamente avanti alla concorrenza, e di cui tutti i clienti erano felicissimi. Probabilmente fu la nostra colpa fu non aggiornarla abbastanza anno dopo anno.»

 

Bisogna porsi obiettivi chiari e lavorare in team: progetti, provi, migliori, provi ancora e via così finché sei soddisfatto. Non esiste la moto perfetta, esiste il migliore compromesso tra tutte le sue componenti

Quale è la genesi ideale di un nuovo progetto a tuo giudizio?

«Bisogna partire sempre dalla concorrenza, provare e riprovare le loro moto, smontarle e vedere come sono fatte. Non bisogna avere la presunzione di sapere tutto, ad esempio un problema con la frizione della RSV bicilindrico che ci fece ammattire in sede di collaudo lo risolvemmo guardando la concorrenza. Una volta preso atto del livello dei competitors, bisogna porsi degli obiettivi chiari e misurabili e lavorare in team: progetti, poi provi, poi migliori, poi provi ancora e via così finché sei soddisfatto. Non esiste la moto perfetta, esiste il migliore compromesso tra tutte le sue componenti. Ad esempio per la RSV rinunciammo agli scarichi alti tanto di moda e che la avrebbero probabilmente resa più bella perché comportavano delle penalizzazioni nella guida. Poi, quando la moto è finalmente pronta, bisogna comunque considerarla un punto di partenza per evoluzioni continue che, un passo alla volta, rendono ogni model year migliore del precedente.»

 

Quali sono le doti del collaudatore?

«Credo mettersi sempre dalla parte del cliente, che spende un bel po’ di soldi ed ha diritto alla massima considerazione ed alla massima sicurezza. Posso dire che, al contrario di altri marchi, noi non abbiamo mai fatto uscire dalle catene una moto insicura. La priorità era di evitare mezzi che potessero avere reazioni incontrollabili che sconcertassero il pilota. Abbiamo sempre preferito rendere una moto un po’ più dura piuttosto che cercare una maneggevolezza eccessiva che poteva diventare pericolosa. Sebbene io abbia avuto la licenza per trenta anni ed abbia corso sia in pista che nel cross, il responsabile dei collaudi a mio giudizio non deve necessariamente essere un pilota; anzi, il pilota tende a farsi la moto su misura, ed ho sperimentato sportive della concorrenza rigidissime, scomode, nervose perché sviluppate solo in pista. Oltretutto il pilota spesso tende a andare veloce anche sopra i problemi, magari scegliendo assetti strani e personali, il che non va bene nello sviluppo di una moto per il mercato mondiale. Personalmente la più grande dote che mi attribuisco è quella di avere una ottima memoria. Sembrerà incredibile, ma io mi ricordo tutte le moto che ho guidato e le sensazioni che mi hanno fornito, così quando provavo un prototipo spesso sperimentavo esperienze già note e risalendo a ritroso nei miei appunti potevo trovare con facilità delle soluzioni migliorative. Aggiungo che il collaudatore non deve essere un incosciente, ma neppure avere paura di prendersi dei rischi. Infine deve esserci stima reciproca con i progettisti, ed io voglio in particolare ricordarne tre di grande competenza: Carlesso, Fioravanzo e Cocco.»

 

Pellizzon al Mugello, impegnato nei collaudi della prima Aprilia stradale
Pellizzon al Mugello, impegnato nei collaudi della prima Aprilia stradale

Caio, prima abbiamo parlato di Beggio: che ricordo ne hai?

«Eccellente. Quando entrai in Aprilia eravamo una quindicina di persone (di cui molte dovevano nascondersi quando arrivavano i controlli dell’ispettorato del lavoro) ed Ivano, contro il volere del papà, stava trasformando la fabbrica di biciclette in una di motorini. Aveva grande passione e sapeva andare bene in moto, seppure ovviamente gli impegni di imprenditore gli impedivano di dedicarvisi troppo. Siamo cresciuti in maniera assolutamente incredibile in pochissimi anni, entrando con pieno merito tra i leader mondiali.»

 

Tra le quattro giapponesi, quale marca ti piace di più?

«Honda, perché in qualsiasi dei suoi modelli, compresi gli scooter, si percepisce un “family feeling” particolare. Magari non sarà sempre la moto migliore, ma va mediamente bene per qualsiasi tipo di utente e trasmette solidità ed affidabilità. Subito dietro metto Yamaha.»

 

Il cambio automatico sulle moto?

“A me piace molto e credo sarà il futuro. Forse l’errore è chiamarlo appunto “automatico”, che sembra un termine destinato a sminuire le capacità di guida. Bisognerebbe come sulle auto dargli dei nomi esotici e tecnologici.»

 

L’avvento dell’elettronica?

«Un fatto estremamente positivo, perché garantisce la sicurezza di guida, che è la cosa più importante. Tra i vari dispositivi il più utile secondo me è l’ABS.»

 

Sulle sportive moderne si arriva a 200 CV: non sono troppi?

«Temo di si, specie perché la velocità di reazione di queste moto è ormai superiore alle capacità di gran parte dei motociclisti. Onestamente l’ 80% dei proprietari di supersportive che incontro in giro nei week end non sono all’altezza del loro mezzo. Vedo un sacco di persone che per cercare di andare forte superano la mezzeria, a volte anche in curve cieche, e questo è indice o di scarsa intelligenza o di scarso controllo della moto, o, peggio, di entrambe le cose. Personalmente sarei favorevole ad una patente speciale, magari con alcuni giorni di guida su pista propedeutici, per girare su strada con certe potenze.»

 

Puoi farti un garage ideale con cinque moto: quali scegli?

«Tre Aprilia: la prima 125, la prima 1000 e la MX cross del 1988. Poi una Honda CB 500 Four, che è una pietra miliare nella storia del motociclismo. Infine una Kawasaki Mach III 500, una due tempi tre cilindri che andava come un missile e rappresentò una grande novità a fine anni ‘70.»

 

Un tuo giudizio sul caso dell’anno, il divorzio Valentino-Ducati?

«L’errore di Ducati è stato quello di non dare retta ai tanti piloti che non riuscivano assolutamente a guidare la loro moto. Rossi è un campione, ma veniva da moto molto buone; quando improvvisamente cominci a cadere a ripetizione è inevitabile che scatti un interruttore automatico nella testa, non importa quanti soldi prendi di ingaggio. Credo che ora che torna in Yamaha comunque gli servirà qualche gara per riassestarsi e ritrovare la sicurezza del campione. La domanda irrisolta è come Stoner riuscisse invece ad andare così forte :secondo me lui è molto più fuoriclasse di quanto si ritenesse, ed inoltre aveva tanta fame di vittorie.»

 

Claudio Pavanello


 

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