Single, da gara, è meglio!

Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
Storia e tecnica dei meravigliosi monocilindrici artigianali dei primi anni Novanta: i “supermono” di Rumi, Golinelli, Moretti...
  • Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
2 gennaio 2020

Le prime due gare dei Supermono si sono svolte nel 1989. Organizzarle non è stato difficile: sono bastati un trafiletto su un settimanale specializzato e una serie di telefonate per raccogliere l’adesione di una quindicina di piloti con moto “fatte in casa” o quasi.

Faceva eccezione la Gilera Saturno con la quale Alan Cathcart ha vinto a Monza, ma si trattava di comunque di un mezzo di serie preparato e non di una realizzazione specificamente studiata per queste competizioni.
I Supermono correvano da diverso tempo in nazioni come la Germania e gli appassionati ne avevano già sentito parlare. C’erano dunque una certa attesa e una notevole curiosità per questi mezzi, per i quali all’estero era stata allestita la categoria “Sound of Singles”.

Per la stagione 1990 la FMI ha varato un regolamento, molto semplice e che consentiva ai preparatori la massima libertà di azione (non c’erano limiti per quanto riguarda la cilindrata mentre il peso minimo era fissato in 110 kg). Le gare sono logicamente aumentate e con loro il numero dei partecipanti. Il campionato italiano per questo tipo di moto è stato istituito nel 1993.

Prima dell’arrivo in grande stile delle case con moto ufficiali sviluppate proprio per questo tipo di competizioni la scena è stata dominata da realizzazioni artigianali che spesso erano il risultato di una grande creatività abbinata a una notevole capacità tecnica. Nella maggior parte dei casi a costruirle erano abili telaisti, ma in genere l’aspetto motoristico era di maggiore interesse.
Grazie alla libertà concessa dal regolamento si poteva fare di tutto, e naturalmente si lavorava principalmente per aumentare la velocità di rotazione e per incrementare la cilindrata.

Hanno così cominciato a crescere gli alesaggi, cosa che il cilindro originale consentiva solo in una certa misura. E allora erano due le strade che si potevano seguire: o si allargava l’alloggiamento originale e si installava una nuova canna oppure si realizzava un nuovo cilindro. Naturalmente anche i rapporti di compressione venivano aumentati, rispetto a quelli dei motori di serie, e pure in questo caso oltre un certo valore non si poteva andare. In quanto a diametri delle valvole e ad alberi a camme, poi, lasciamo stare: i casi di “più di così non si può” erano all’ordine del giorno.

Il Supermono Rumi aveva una splendida estetica e una finitura impeccabile. Il motore Honda Dominator aveva subito profonde modifiche, che avevano consentito di ottenere una potenza più che doppia rispetto a quella originale
Il Supermono Rumi aveva una splendida estetica e una finitura impeccabile. Il motore Honda Dominator aveva subito profonde modifiche, che avevano consentito di ottenere una potenza più che doppia rispetto a quella originale

Questa corsa alla potenza tramite incremento dei tre parametri in questione (alesaggio, velocità di rotazione e rapporto di compressione) ha permesso anche di sapere fino a dove ci si poteva spingere nei vari casi e di mettere in luce i limiti di resistenza meccanica di certi componenti di alcuni motori, che andavano benissimo così come venivano venduti dalla casa ma che potevano entrare in crisi se se ci si spingeva molto in là con l’elaborazione.
Sono così state realizzate modifiche anche profonde: in corrispondenza dei supporti di banco sono talvolta state applicate robuste piastre di rinforzo, e talvolta si è addirittura arrivati alla realizzazione di nuovi basamenti. E per certi motori con raffreddamento ad acqua qualcuno ha perfino costruito una nuova testa, con distribuzione bialbero, e la ha utilizzata al posto di quella originale. In quanto ai componenti mobili, si è fatto largo ricorso a ciò che veniva offerto dai produttori americani di parti speciali: pistoni forgiati (come gli Arias), bielle (Carrillo) e alberi a camme (Megacycle, White brothers).

Man mano che le gare dei Supermono si sono succedute, diventando una realtà sempre più importante, si sono messi in luce per la validità delle loro realizzazioni diversi telaisti e motoristi che sono ben presto diventati autentici specialisti del settore. In questa sede ci limitiamo solo a ricordarne alcuni.

Golinelli di Imola ha realizzato eccellenti telai sia in tubi che a doppia trave, prima in lamiera d’acciaio e subito dopo in lega di alluminio, nei quali il più delle volte sono stati montati motori KTM e Rotax.
Moretti di Livorno, il cui pilota di punta è stato a lungo Dal Maso, ha costruito i suoi validi telai a doppia trave in lega di alluminio dotandoli di motori Yamaha, per i quali a un certo punto ha anche realizzato un nuovo gruppo testa-cilindro, con due alberi a camme comandati da una cinghia dentata.
Rumi di Bergamo, che nei primi anni delle superbike aveva curato le Honda 750 quadricilindriche a V di Merkel, ha realizzato un Supermono con il motore di una Dominator dotato di una testa bialbero e di un cilindro di sua fabbricazione, con tanto di raffreddamento ad acqua.
Pavesi di Milano ha basato la sua moto su di un motore Kawasaki, per il quale, dopo le prime gare, ha realizzato personalmente (sapeva usare molto bene le macchine utensili) sia la biella che la testa.

La comparsa di mezzi ufficiali allestiti dalle case ha a un certo punto reso meno competitive le realizzazioni artigianali e ha fatto aumentare i costi. L’interesse da parte degli appassionati è andato via via scemando e alla fine del 1995, vista la diminuzione dei partecipanti, la FMI ha abolito il campionato. Le moto di questo tipo hanno continuato a gareggiare anche in seguito, fino a uscire di scena.

Per il suo Supermono Masoni ha fatto davvero le cose in grande realizzando un motore con cilindro orizzontale con testa bialbero di origine Gilera. Anche in questo caso il telaio era di Golinelli
Per il suo Supermono Masoni ha fatto davvero le cose in grande realizzando un motore con cilindro orizzontale con testa bialbero di origine Gilera. Anche in questo caso il telaio era di Golinelli

In quanto alle prestazioni dei Supermono, ecco alcune considerazioni. Da esse tra l’altro appare ben chiaro che il motore Ducati, unico realizzato completamente ex-novo e specificamente studiato per le competizioni, faceva davvero classe a sé.
Le potenze specifiche ottenute possono non sembrare particolarmente elevate (siamo dalle parti di 100 – 115 CV/litro, con i valori più elevati raggiunti dallo Yamaha-Byrd e dal Rotax), ma non si deve trascurare il fatto che si trattava di motori con alesaggi molto grandi e corse comunque considerevoli, nati per le enduro stradali. Il motore Ducati, autentica metà di un bicilindrico da superbike, di cavalli/litro ne aveva 140.

La velocità media del pistone, decisamente elevata per l’epoca, era leggermente superiore a 24 metri al secondo. Nel Supermono di Borgo Panigale era di 23,3 m/s; anche se il regime di rotazione era nettamente superiore rispetto agli altri, la corsa infatti era decisamente contenuta.
A titolo di confronto, si pensi che l’ultimo KTM 690, prodotto in serie e perfettamente in regola con i limiti delle emissioni acustiche e di scarico, ha una potenza specifica di 107 CV/l e una velocità media del pistone di 20 metri al secondo…

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